Cosa serve per stare bene? La nostra epoca mette a rischio la vita della parola, perché la circoscrive all’interno di una dimensione sorda al suo suono, alla sua continuità, al suo stesso proposito che è l’essere letta, incorporata cerebralmente, assimilata attraverso le emozioni. Il potere della parola viene quindi compromesso da una ricezione instabile, per la quale sembra adattarsi, ridursi, limitarsi, per non dire imbruttirsi. La parola ha anche un suo ritmo, una sua sospensione, un proprio silenzio che è un porto dove le barche attendono, trattenute dall’ancora. C’è in questo porto l’attesa, il lusso del movimento che non pensa ancora al viaggio, c’è un’armonia lenta, spontanea, dove il nulla acquista significato e non si affida ad alcuna velocizzazione, ad alcun trauma, ad alcuna nevrosi.
Il porto e il saperci stare, è quanto manca sia individualmente che collettivamente alle società odierne, travolte da impietose asincronie comunicative, temporali, spaziali. L’uomo problematico di cui parlava Gabriel Marcel, sembra dipanarsi di era in era e ammutolire il grido di tutti i tempi, quello dell’urgenza di una naturalità che si continua a perdere a mano a mano che ci si allontana dallo stato naturale delle cose, da una visione mai costruita, non inventata.
Chi può costruire un fiore? Chi può permettere al fiore di riemergere in una terra non sua? L’inospitalità di quanto l’essere umano ha generato con i suoi tecnicismi, con le sue economie, con l’inarrestabile produttività, è quanto lo ha reso schiavo di questa logica tremenda, compromettendo ogni sua facoltà innata. La cultura della dipendenza dalla cura e della sottolineatura del patologico ha svuotato la memoria umana di tutta la bellezza, del carico emozionale come risorsa, del potenziale inteso come qualcosa da raggiungere e non da riscoprire.
La pedagogia è d’altronde la disciplina dell’ottimismo, spesso temuta da una certa branca della psicologia che non desidera ritrovarsi oltraggiata in quel suo ruolo osannato come unico e proprio. Se la psicologia, con l’approccio clinico che la contraddistingue, si occupa della diagnosi e del trattamento legato alla cura, la pedagogia si muove in maniera olistica, valutando la possibilità di prevenire quella degenerazione della sofferenza, enfatizzando l’ambito educativo, fatto di consapevolezze, di creatività, di possibilità. Il pedagogo non si domanda se sia possibile ottenere un risultato, ma si concentra sull’azione, che è a prescindere possibile, sempre e comunque. L’impossibile è possibilità. L’ultimo stadio è un’occasione. L’inesorabilità è certezza di cambiamento. Il cambiamento è l’abito che indossa la pedagogia, poiché secondo tale disciplina il passo c’è anche senza il piede.
Di cosa quindi abbiamo bisogno? Di questo costante cambiamento, con o senza strada, con o senza scarpe, con o senza piedi. Si tratta di una spinta profonda che interrompe il processo eterno della cura-dipendenza nei termini di assolutezza. La cura è e resta fondamentale, ma mettendo le stampelle nella testa di chi stiamo aiutando, nella sua volontà, nella sua fiducia.
Il cammino non è certo immediato, ma rappresenta il principio che nel tempo fa germogliare i semi dell’opportunità. Educare vuol dire cambiare. La cura non può essere separata dall’educazione e l’ambito educativo è proprio della pedagogia.
Il consulente pedagogico naviga in acque torbide, concentrandosi però sulla ricchezza del fondale, sottolineando non tanto la sporcizia che opacizza le onde, ma la luce del sole che la fa brillare comunque. Questa è la grande possibilità di benessere, imparare a riconoscere che la cura non guarda soltanto la malattia, ma la potenzialità della guarigione. Il dolore è uno strumento per il suo stesso superamento, per l’apporto concreto a un cambiamento. In questo cambiamento c’è il presupposto di tutte le guarigioni, fino a determinare la rinascita della parola e la sua libertà di manifestarsi liberamente, dilungandosi, rallentando, senza la paura di ritrovarsi al buio, ricoperta dalla polvere. Ed è così che la barca può saper ondeggiare nel porto, senza ruggine, senza affondare, pronta a salpare anche se il viaggio non è ancora iniziato.