Zurigo

L’anima russa di Carl Gustav Jung porta il nome di una donna

Sabina Spielrein e l’asilo bianco della solidarietà internazionale È uscito in Francia un libro di Frédéric Lenoir che riaccende i riflettori su un “gigante” della psicanalisi del ‘900: Carl Gustav Jung. Con Jung Un voyage vers soi, “Un viaggio verso se stessi” l’autore conduce nel viaggio più entusiasmante: quello dentro di noi. E se è vero che è la donna a rappresentare la via dell’uomo verso se stesso, il percorso di consapevolezza per Jung non può prescindere da una grande donna: Sabina Spielrein. “Chi era costei?” si sarebbe chiesto il Don Abbondio di manzoniana memoria. Seguiamo la cronaca “in presa diretta”, come viena trasmessa dal carteggio epistolare tra Jung Freud e la Spielrein stessa, rinvenuto negli scantinati del Palais Wilson di Ginevra. Forse non è troppo azzardato asserire che Sabina rappresentò una sorta di “sincronia significativa” per Jung.  Siamo nel 1904 quando la russa-ebrea Sabina Spielrein, alla soglia dei venti anni, viene ricoverata all’ospedale psichiatrico del Burgholzli di Zurigo per gravi disturbi psichici. Ed è proprio in questo contesto che avviene l’incontro con l’allora giovane Dottor Jung, alle sue prime armi con lo strumento psicanalitico. Una paziente dunque con cui Jung “sperimentò” approcci terapeutici assolutamente inconsueti per quel tempo. Più che strumenti di tortura tanto in voga all’epoca, Jung si servì di personale e amorevole dedizione, basata sulle parole, con cui riuscì nell’impensabile. Sabina riesce infatti a superare lo stadio più acuto della malattia, rinascendo a nuova vita. La “piccola” Sabina, come Freud la chiama nelle sue lettere, diventa infatti una valente studentessa di medicina che, nel tempo, matura l’idea di dedicarsi essa stessa alla psichiatria. Un incontro di anime si potrebbe dire. Ed infatti la traduzione in chiave filmica della relazione, a tratti “scandolosa” tra Jung e la Spielrein, per mano del regista Roberto Faenza, porta il nome di

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