Spagna

200 anni del Prado, l’affascinante museo nel cuore di Madrid

Il 19 novembre del 1819 venne aperto al pubblico uno dei più importanti Musei al mondo. Scopriamo insieme qualche curiosità. di Alberto Piastrellini Martedì 19 novembre, il motore di ricerca più diffuso al mondo, Google, ha dedicato il suo doodle al Museo del Prado, di cui ricorre il 200° anniversario. L’imponente museo madrileno detiene, con il Louvre (Parigi), l’Ermitage (San Pietroburgo), la National Gallery (Londra) e gli Uffizi (Firenze) una fra le maggiori raccolte pittoriche del mondo e vanta opere di Beato Angelico, Andrea Mantegna, Raffaello Sanzio, Hieronymus Bosch, Rogier van der Weyden, Bruegel il Vecchio, El Greco, Pieter Paul Rubens, Tiziano, Diego Velázquez, Francisco Goya… Il Museo del Prado (Link: www.museodelprado.es) fu progettato, insieme ad una serie di edifici pensati per ospitare altrettante istituzioni scientifiche dell’epoca, nell’ambito di un rinnovamento urbanistico di Madrid commissionato all’architetto Juan de Villanueva (considerato dalla critica artistica il maggior esponente dell’architettura neoclassica in terra di Spagna) dal sovrano Carlo III di Borbone (Madrid, 20 gennaio 1716 – Madrid, 14 dicembre 1788). Un monarca illuminato e riformista, amante dell’arte e del buon vivere e che, grazie alla madre italiana (Elisabetta Farnese) e al fatto di essere terzo in linea di successione al trono di Spagna, ebbe un’infanzia ed un’adolescenza tutta italiana, dapprima a Firenze, presso i Medici ormai prossimi all’estinzione della casata dove ottenne l’investitura di Gran Principe Ereditario della Toscana; poi a Parma (di cui fu Duca dal 1731 al 1735); infine a Napoli in qualità di Re delle Due Sicilie dal 1735 al 1759, sino all’abdicazione in favore del figlio Ferdinando prima di ricevere la corona Spagna. Peraltro, proprio durante la reggenza delle Due Sicilie, Carlo si distinse per le imponenti opere di costruzione che fecero di Napoli una vera e propria capitale europea; durante il suo reame, infatti, furono costruiti, tra l’altro,

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Donna InCanto: Carmen, la seduzione sfrontata e ribelle

Esotismo ed erotismo nella figura della zingara ribelle che da 144 anni accende le fantasie del pubblico del mondo. Di Alberto Piastrellini “Quand je vous aimerai? Ma foi, je ne sais pas. Peut-être jamais, peut-être demain. Mais pas aujourd’hui, c’est certain!” (Traduzione: “Quando vi amerò? In fede mia non so. Può essere, mai; può essere domani. Ma non oggi, è sicuro!”) L’entrata in scena di Carmen, a metà del primo atto dell’Opera omonima di George Bizet è qualcosa di sconvolgente nella sua sfrontata esuberanza giovanile e popolare al tempo stesso; sapientemente e teatralmente ritardata da due scene dove l’atmosfera accaldata del pomeriggio sivigliano si colora dell’attesa spasmodica di gruppi maschili diversi bramanti l’arrivo delle donne. Non già le figurine putibonde in guanti di pizzo e ombrellino o le ingenue contadinelle che affollano la piazza, buone, se mai, per metter su famiglia o per scimmiottare qualche conquista galante, ma le ruvide, provocanti, scosciate e sguaiate sigaraie la cui anima seduttrice e perversa è Carmen, sex symbol ante litteram che accende le fantasie borghesi con un portato di sensualità fisica e verbale amplificato da una partitura orchestrale accesa e violenta, evocatrice e ammaliatrice. Scopriamo insieme questo personaggio che dal 1875 costituisce un archetipo dell’opera lirica e della femminilità. Prima ancora che sulle scene, Carmen vede la luce nella novella omonima pubblicata nel 1845 da Prosper Mérimée: un torbido quadretto in quattro parti che adombra relazioni adulterine e crimini passionali nel contesto di una Spagna accesa dal fuoco dei sensi. Un soggetto di per sé già scandaloso che però, aveva tutte le caratteristiche – adeguatamente sfrondato delle parti più “forti” – per intrattenere il pubblico di famiglie del Théâtre national de l’Opéra-Comique di Parigi che, nel 1873 aveva commissionato a George Bizet l’incarico di trarne un’opera. Il musicista e i librettisti Henri Meilhac

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