osteoporosi

Dieta di Okinawa: per dimagrire e vivere più a lungo

Menù, benefici e controindicazioni della dieta giapponese della longevità che si ispira al regime alimentare degli abitanti dell’omonimo arcipelago. di Anna Rita Felcini Okinawa è l’arcipelago a sud del Giappone famoso per la dieta della longevità, chiamata anche dieta di Okinawa. Qui, infatti, il numero di ultracentenari è altissimo, il più alto del mondo secondo l’Okinawa Research Center for Longevity Science (ORCLS). E l’indice di massa corporeamedio è tra 18 e 22, mentre nei paesi europei è di 24,7. Sul National Geographic è stata definita “La patria delle donne più longeve del mondo”, tutte con meno malattie cardiache, cancro e demenza senile rispetto alle donne che vivono negli Stati Uniti. Il merito spetta tutto ad una visione dell’alimentazione molto particolare. Una delle parole d’ordine per chi siede a tavola, infatti, è hara hachi bu, cioè la regola di mangiare solo l’80% di quello che il nostro appetito ci spingerebbe a fare. È molto importante, dunque, non solo ciò che si assume, ma anche il fatto di imparare a mangiare consapevolmente e lentamente concentrandosi su cosa e come si sta consumando (uno stile di alimentarsi molto diverso dal più frequente “mordi e fuggi” tipico dell’Occidente). Altro concetto fondamentale, e non meno importante, è legato al modo di cucinare, che si attiene al termine tiandaa, e cioè fare qualcosa con amore. Banditi completamente dall’alimentazione di Okinawa sono i cibi pronti e preparati di fretta. La dieta giapponese, avendo un apporto calorico basso (1.200 kcal al giorno), favorisce il dimagrimento, ma non è questo il suo unico vantaggio: grazie alla ricchezza di fibre e Omega 3 riduce il colesterolo, è anti-age, a basso rischio osteoporosi, e aiuta a prevenire malattie come diabete, ictus, cardiopatie, cancro. Cosa mangiano in pratica gli abitanti di Okinawa? Semplicemente seguono una dieta ricca di verdure, in particolare di

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Studiare di più fa diminuire il rischio di contrarre patologie croniche

Secondo uno studio dell’Osservatorio nazionale sulla salute effettuato su tutte le Regioni italiane, chi ha un titolo di studio più elevato previene i rischi di ipertensione, artrosi e artrite, osteoporosi, diabete e patologie cardiache. Di Annarita Felcini Più studiamo, meno rischiamo di ammalarci. Secondo una ricerca condotta dall’Osservatorio nazionale sulla Salute studiare di più, oltre a dare dei vantaggi dal punti di vista lavorativo, previene anche il rischio di sviluppare malattie croniche. Sulla base dei dati dell’Istituto, diretto da Walter Ricciardi con sede a Roma all’Università Cattolica, nel 2017 nella fascia di età tra i 45 e 64 anni (quella in cui insorge la maggior parte delle cronicità), la percentuale di persone con licenza elementare o nessun titolo di studio era affetta da almeno una patologia cronica, pari al 56,0%. Ma scendeva al 46,1% tra coloro che hanno un diploma e al 41,3% tra quelli che possiedono almeno una laurea. L’artrosi/artrite, l’ipertensione e il diabete sono le malattie per le quali questo fenomeno è più forte e per cui si riscontrano i maggiori divari sociali; con riferimento ai titoli di studio estremi (nessun titolo-laurea) le differenze ammontano, invece, a 13,1, 12,5 e 7,4 punti percentuali a svantaggio dei meno istruiti. E si registrano differenze anche rispetto alle professioni. Le categorie più colpite da patologie croniche sono i disoccupati e gli autonomi: tra i primi la percentuale di coloro che soffrono di almeno una patologia cronica è di circa il 36,3%, mentre tra i secondi si attesta al 34,6%. Rispetto alla condizione di multicronicità, i disoccupati mostrano mediamente maggiori svantaggi rispetto ad artrosi/artrite e disturbi nervosi. Tra gli autonomi la patologia per la quale manifestano in media lo svantaggio più penalizzante è l’ipertensione. Nel 2018, invece, sempre secondo l’Osservatorio, le malattie croniche hanno interessato quasi il 40% della popolazione italiana, vale

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L’alimento amico delle donne: il latte

Come prevenire l’osteoporosi con il latte. Di Serena Lepri Tolstoj diceva che le donne sono una vite su cui gira tutto e per far sì che la donna sia capace di reggere e sorreggere tutto ciò che la circonda è fondamentale che sia forte. La forza deve esserci nel coraggio, nelle azioni e nei pensieri delle donne ma anche nel fisico. Soprattutto quando la vita di una donna si affaccia verso la menopausa, lei deve saper accogliere questo periodo di profondi cambiamenti con grande forza. La menopausa, purtroppo, porta la donna alla predisposizione di un maggior numero di patologie in quanto viene a mancare il potere protettivo degli estrogeni che la accompagnava fino a ieri. L’osteoporosi è una di quelle malattie da combattere e se ne può prevenire l’insorgenza con un alimento alleato delle donne: il latte. Ormai è largamente conosciuto il binomio calcio–ossa, ma forse non molti conoscono il motivo chimico che c’è dietro questa relazione. Il latte, in realtà, contiene pochissimo calcio rispetto ad altri alimenti. Infatti, 100 g di latte contengono 120 mg di calcio, 100 g di parmigiano ne contengono 1200 mg, cioè oltre 1 g! Vi chiederete, allora, come mai non si consiglia il formaggio per chi ha problemi ossei e/o di malassorbimento di calcio, visto che ne contiene molto di più. La risposta sta proprio nella composizione chimica nel latte, in come è fatto, ovvero nelle interazioni che si instaurano tra il minerale e le altre molecole del latte. Solo per annoverarne una, il latte contiene il lattosio, il suo zucchero per eccellenza, che, nel nostro intestino, viene trasformato in acido lattico. La tanto acclamata flora batterica del nostro colon riesce a creare, a partire dal lattosio, un ambiente relativamente acido, il quale favorisce l’assorbimento del calcio. Nel formaggio, invece, il lattosio non è

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